(Cassazione - Sezione Lavoro - Sent. n. 5629/2000 - Presidente V. Trezza - Relatore A. Spanò)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 235/98 in data 26 marzo 1998, il Pretore di Rieti respingeva la domanda proposta da P.B., intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento a lui intimato in data 4 ottobre 1996 dalla (omissis), presso la quale esso ricorrente aveva prestato servizio con la qualifica di funzionario di terzo livello, da ultimo con distacco presso la (omissis).
Interponeva appello il P. e in esito il Tribunale di Rieti, con sentenza n. 8/99, emessa in data 11 novembre 1998 - 4 febbraio 1999, respingeva il gravame e così, per quanto rileva in questa sede, motivava la decisione.
Osservava che dalla compiuta istruttoria era emerso come il P., durante il servizio svolto nelle ore lavorative della mattinata all'esterno dei locali della (omissis), con lo specifico incarico di visitare clienti e proporre i prodotti dell'(omissis), non aveva mai preso contatti personali con le persone poi indicate nei rapportini di servizio e solo in alcuni casi si era limitato a qualche telefonata nelle ore pomeridiane, durante le quale doveva trattenersi in Ufficio.
Un ulteriore controllo aveva consentito di appurare che l'appellante trascorreva le mattinate oziando all'interno della propria autovettura in sosta, spostata solo per trovare una più comoda sistemazione all'ombra, ed usciva dal veicolo solo per recarsi al bar, acquistare il giornale (alla cui lettura si dedicava al ritorno a bordo del mezzo), entrare nei supermercati, guardare vetrine.
Osservava quindi il Collegio di merito che il controllo così effettuato, mediante ricorso a dipendenti dell'(omissis) e ad un investigatore privato appositamente incaricato, non poteva considerarsi vietato dagli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori e perché inteso a verificare non già la diligenza nell'espletamento delle mansioni affidate al lavoratore ma solamente un comportamento truffaldino e perché espletato non già nel luogo di lavoro ma sulla pubblica via, nei luoghi prescelti dal P. per trascorrere la mattinata in attività che nulla avevano a che fare con i compiti a lui affidati dal datore di lavoro.
Osservava ancora che la contestazione effettuata, oltre che dalla datrice di lavoro (omissis), era regolare in quanto quest'ultimo (omissis), sorto dalla fusione tra la (omissis) e il (omissis), era così divenuto il soggetto presso il quale il dipendente era distaccato alla data del licenziamento.
Propone ricorso per cassazione il P. e deduce quattro motivi.
Resiste con controricorso la (omissis) e deposita memoria.
Nel corso della discussione la difesa del P. ha chiesto il differimento del presente giudizio per la riunione con altro, del pari pendente in sede di legittimità e fissato per udienza prossima, relativo all'impugnazione del provvedimento datoriale di distacco.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va disattesa l'istanza di differimento del presente giudizio per riunione ad altro relativo all'impugnazione del provvedimento di distacco, atteso che sulle questioni sottoposte all'esame di questa Corte non potrebbe influire in alcun modo l'esito dell'altro procedimento e neppure potrebbe verificarsi l'ipotesi inversa.
E' infatti evidente che l'eventuale illegittimità del distacco non potrebbe certo legittimare comportamenti gravemente contrari agli obblighi di fedeltà del lavoratore, nonché agli obblighi di eseguire il contratto secondo correttezza e buona fede.
Ed ancora l'esito del presente giudizio, relativo al licenziamento, non potrebbe influire sulla legittimità del distacco e sull'interesse ad ottenere una verifica al riguardo, atteso che il rapporto di lavoro è proseguito per circa un anno.
Col primo mezzo si denuncia, in relazione ai numeri 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge 20 maggio 1970 n. 300, nonché il difetto di motivazione.
Si afferma che l'attività di verifica e controllo era stata svolta non già al fine di accertare eventuali reati in danno dell'Azienda ma solo per acclarare le cause della scarsa produttività e quindi per verificare appunto la diligenza nello svolgimento dell'attività lavorativa al di fuori dell'Ufficio.
In particolare si sostiene, trascrivendo una frase dagli scritti difensivi della resistente, che l'attività investigativa era intesa a verificare se il lavoratore "non lavorava o lavorava per una banca concorrente", circostanza quest'ultima che non "costituirebbe fattispecie penalmente rilevante ma, qualora sia dimostrata, violazione dell'obbligo di fedeltà e come tale giusta causa di licenziamento".
Il motivo non è fondato.
Si premette che il preteso vizio di motivazione viene solamente enunciato, come clausola di stile che sarà poi ripetuta per tutti i successivi mezzi di ricorso ma non viene illustrato o specificato in qualsiasi modo.
Si osserva ancora che che la prestazione d'opera a favore di terzi concorrenti costituisce violazione dell'obbligo di fedeltà, irrilevante sotto il profilo penale, se compiuta fuori del normale orario di lavoro, mentre integra gli estremi del delitto di truffa se svolta nel normale orario, da parte di soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli è stato affidato, mentre svolge altra attività certo non gratuita.
Del tutto giustificata era dunque, in ogni caso, la verifica circa l'effettivo svolgimento dell'attività lavorativa e la precisazione circa il dubbio se il tempo passato fuori dalla sede della (omissis) fosse impiegato a favore di terzi vale solo a chiarire che la mancata produttività del dipendente ebbe a far sorgere il sospetto di un comportamento non commendevole ma quanto meno finalizzato a scopo di lucro e non a far trascorrere la mattinata nell'ozio inutile.
D'altro canto l'art. 2, secondo comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 fa divieto ai datori di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza sull'attività lavorativa e a queste ultime di accedere nei locali ove tale attività è in corso. I due precetti, letti congiuntamente, appaiono ben chiari nel senso che è vietato ogni controllo sul modo della prestazione d'opera all'interno dell'azienda mediante personale avente compiti di mera vigilanza. Nulla di dispone per la verifica dell'attività svolta al di fuori dei locali aziendali da parte di soggetti quindi non inseriti nel normale ciclo produttivo, la cui prestazione non può essere verificata nell'ambito dei poteri di direzione, controllo tecnico e sorveglianza.
In ogni caso non è vietato all'imprenditore di verificare il corretto adempimento delle prestazioni lavorative al fine di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione (Cass., Sez., Lav., 18 febbraio 1997 n. 1455), è consentita la verifica circa l'eventuale realizzazione di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa (Cass., Sez. Lav., 9 giugno 1989 n. 2813), non è vietato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati, in considerazione della libertà della difesa privata e in mancanza di espliciti rilievi al riguardo (Cass., Sez. Lav., 17 ottobre 1998 n. 10313).
Pienamente conforme a diritto appare dunque la sentenza impugnata, in quanto ha ritenuto lecito il ricorso ad investigatori privati al fine di verificare come il P. impiegava il tempo trascorso fuori della sede della (omissis), e perché non ricadente nell'ambito del divieto di cui al richiamato art. 2, e perché finalizzato a verificare comportamenti che ben potevano integrare il delitto di truffa.
Col secondo mezzo si denuncia, in relazione ai numeri 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e il difetto di motivazione. Si afferma che il licenziamento è stato effettuato sulla base di prove illecite ed i risultati ottenuto con mezzi di indagine vietati non poteva essere utilizzato dal Giudice.
La doglianza attinente alla pretesa violazione delle regole in tema di adempimento dell'onere probatorio è del pari infondata, poiché, come si è detto a proposito del primo mezzo, correttamente il Tribunale ha ritenuto valida la prova acquisita mediante ricorso all'opera di un investigatore privato che ha operato al di fuori dell'ambito aziendale, al fine di verificare comportamenti truffaldini.
Col terzo mezzo si denuncia, in relazione ai numeri 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 2504 bis c.c.. Si afferma che, a seguito della fusione tra la (omissis) e il (omissis), era sorto un nuovo soggetto il quale peraltro era succeduto nei rapporti di lavoro, non anche in quelli di distacco di lavoratori. In mancanza di tale provvedimento, la (omissis) non sarebbe stata titolare di alcun potere di controllo sul lavoratore distaccato a suo tempo presso altro soggetto.
La doglianza non è fondata.
Ed invero l'art. 2504 bis c.c. dispone che "la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte" e non prevede eccezione o limitazione veruna. Non si comprende per qual motivo i diritti e gli obblighi nascenti da un provvedimento di distacco in favore del nuovo soggetto, che si trova nella stessa posizione del precedente in relazione a tutti i rapporti giuridici.
La (omissis) era, dunque, indubbiamente titolare di un potere di controllo sul lavoratore distaccato presso di lei e regolarmente retribuito e pertanto non merita censura la decisione del Tribunale in quanto ha ritenuto giustificato il licenziamento effettuato in relazione all'esito di tali controlli.
Col quarto mezzo si denuncia, in relazione ai numeri 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c.
Si afferma che la sanzione applicata sarebbe sproporzionata in relazione alla gravità dei fatti accertati, tra l'altro riconducibili ad uno stato di malattia da ricollegarsi al provvedimento di distacco ed all'assegnazione a mansioni inferiori.
Il ricorrente non indica peraltro gli atti della fase di merito dai quali risulti essere stata prospettata la questione della proporzionalità fra l'infrazione accertata e la sanzione espulsiva.
Per effetto del noto principio di autosufficienza, nel ricorso per cassazione deve essere offerto ogni elemento idoneo alla decisione al Giudice di legittimità, che, per i limiti della sua cognizione, non può accertare direttamente la verità delle affermazioni delle parti o il contenuto degli atti (memorie o documenti), ove l'argomento sarebbe stato introdotto o trattato. Si deve dunque considerare l'eccezione come nuova e introdotta per la prima volta nel giudizio di legittimità. Il rilievo non può quindi trovare accoglimento in questa sede poiché "nel giudizio di cassazione, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell'ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti" (Cass. civ., sez. II, 13 luglio 1996, n. 6356, conformi ex pluribus, Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 1998, n. 570, Cass. civ., sez. I, 12 febbraio 1998, n. 1496, Cass. civ., sez. II, 15 maggio 1998, n. 4900, Cass. civ., sez. II, 13 luglio 1996, n. 6356, Cass. civ., sez. lav., 29 marzo 1996, n. 2905, Cass. civ., sez. lav., 29 marzo 1996, n. 2905, Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 1996, n. 1084, Cass. civ., sez. lav., 25 novembre 1996, n. 10446, Cass. civ., sez. lav., 19 novembre 1996, n. 10111, Cass. civ., sez. II, 30 marzo 1995, n. 3810, Cass. civ., sez. lav., 17 dicembre 1994, n. 10834, Cass. civ., sez. I, 24 aprile 1993, n. 4841).
E' appena il caso di far constare che nella sentenza impugnata si osserva, con riferimento ai motivi di appello, che il licenziamento è stato intimato non già per scarso rendimento ma per le accertate inadempienze, in ordine alla cui gravità viene computa un'ampia disamina, del tutto logica e coerente, per la quale l'odierno ricorrente non formula alcun rilievo, limitandosi ad introdurre il tema, del tutto nuovo, della possibilità di applicare una sanzione none espulsiva.
Si impone quindi il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta l'istanza di riunione non essendovi connessione tra i due giudizi.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alle spese in lire 72.000 oltre a lire 4.000.000 (quattro milioni) per onorario.
La sentenza n. 10313 del 13/10/98, pronunciata dalla Corte di cassazione, consente di fare il punto sulla legittimità dei controlli, esercitati dal datore di lavoro, sull’attività dei propri dipendenti.
La Suprema corte si è pronunciata in ordine ad una controversia che contrapponeva un informatore medico scientifico al proprio datore di lavoro. Il lavoratore era stato licenziato per aver indicato, nel rapportino giornaliero, visite a medici in realtà mai effettuate e per aver richiesto rimborsi chilometrici per attività non svolte. Nel conseguente giudizio davanti al Pretore, il datore di lavoro aveva provato le contestazioni mediante gli accertamenti effettuati da investigatori privati, a fronte delle quali il lavoratore aveva opposto vari principi dell’ordinamento, tra cui la possibilità di utilizzare guardie giurate solo al fine di tutelare il patrimonio aziendale; l’obbligo di comunicare al personale i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza della loro attività; il divieto di utilizzare impianti audiovisivi e altre apparecchiature per controllare a distanza l’attività dei lavoratori; la regolamentazione delle visite personali di controllo.
Ciò nonostante, il Pretore aveva dichiarato la legittimità del licenziamento, e il Tribunale, a seguito dell’appello presentato dal lavoratore, aveva confermato la sentenza del primo giudice. Ora la Suprema corte ha cassato la sentenza del Tribunale, ritenendo che era stata erroneamente omessa la pronuncia in ordine alla illegittimità dei controlli occulti svolti da persone estranee all’azienda. Nel rinviare la causa ad altro Tribunale per la decisione definitiva, la Corte ha affermato che la causa dovrà essere riesaminata tenendo conto della articolata giurisprudenza che si è formata in materia.
Per esempio, in ordine ai furti commessi dai dipendenti di grandi magazzini, la Corte ha ritenuto che il controllo effettuato dall’investigatore in nulla differisce da quello teoricamente esercitabile da qualsiasi cliente. E’ stato anche ritenuto che il datore di lavoro può legittimamente vigilare sui lavoratori, in ordine a loro comportamenti che siano configurabili come fonte di responsabilità extracontrattuale (per esempio, sottrazione di merce): infatti, la sorveglianza finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale, contemplata dalla norma in questione, riguarda non solo l’attività lavorativa, ma anche le eventuali irregolarità del comportamento dei lavoratori.
La Corte ha poi ricordato che la norma dell’art. 3 S.L. non ha fatto venir meno il potere dell’imprenditore di controllare, direttamente o mediante l’organizzazione gerarchica della sua impresa e che è conosciuta ai dipendenti, l’adempimento delle prestazioni dei lavoratori, quindi accertando eventuali mancanze; tale accertamento può avvenire anche in maniera occulta: questa modalità di controllo è giustificata dal comportamento illegittimo del lavoratore. Inoltre, gli artt. 2 e 3 S.L. non impediscono al datore di lavoro il ricorso ad investigatori privati, in difetto di espliciti divieti al riguardo e in considerazione della libertà della difesa privata.
Come si vede, sebbene la sentenza del Tribunale sia stata annullata, la giurisprudenza della Corte di cassazione è, sul punto, piuttosto rigorosa, così da consentire al datore di lavoro ampi margini per il controllo dell’attività dei suoi dipendenti.
Aut. Ne Prefettura di Macerata Prot. n°. D. 13351 /'07/Area 1^ -- Copyright© 2007 - 2023 Partita IVA 01617580434. Privacy Policy
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